Mi ricordo i due mesi filati passati li, come i mesi della riscoperta. Mi ricordo le mattine d'attesa, il silenzio del pomeriggio, la furia delle sirene e la grazia della luce, d'improvviso farsi presenti, a ricordarmi la vita. Ho memoria di tutto, che le foto servono a questo e che quello è stato il tempo in cui ho sentito la città farsi chiara dentro me. Come a chiarirmi chi ero, cosa avrei dovuto essere, quello che diventerò.

20.09.2014
Sotto Grand Central, per Long Island City. Uno strascico pesto di grigio, i guanti intatti, le ortensie affrante. L’abito scollato dalla sposa e un profumo, dolce di ciliegie amare, da ingoiare come fosse estate. Lascio andare ogni treno che passa che non c’è fretta. Greenpoint sa di dovermi aspettare e con lei Le Fanfare, i polacchi, l’estate che siamo stati felici, India street, gli orsi di gioia, le lavatrici. Lascio andare ogni carrozza, tutte le vite, la voce che invita a dire quello che si vede, a tenersi lontani dalle porte, per domandarmi che fare, qual’è il confine tra la tragedia che osservo e me, tra quella miseria e chi potrebbe osservarla per tramite mio. Lei, sessanta tutti e quaranta di buio, il rosa nuziale sugli zigomi duri, il collo di baci disattesi, l’anulare nudo, sventola un cartello ad ogni esodo di treno: “Chiedimi se sono viva, adesso”, dice. “Chiedimi se sono viva”. Potrei prendermi l’arbitrio di misurare la luce, fare fuoco, contatto. Se solo avesse una risposta da darsi. Se solo le servisse a trovarla. Se solo le servisse più di quanto è servito a me, decidere di non farlo.