Mi ricordo i due mesi filati passati li, come i mesi della riscoperta. Mi ricordo le mattine d'attesa, il silenzio del pomeriggio, la furia delle sirene e la grazia della luce, d'improvviso farsi presenti, a ricordarmi la vita. Ho memoria di tutto, che le foto servono a questo e che quello è stato il tempo in cui ho sentito la città farsi chiara dentro me. Come a chiarirmi chi ero, cosa avrei dovuto essere, quello che diventerò.

03.10.2014
Il cameriere equatoriale, capelli incollati ai sogni, mi sospira le ciglia. Sono a Chelsea, ed é fame delle nove, fame che sono 26 ore. Il Diner é semivuoto nonostante il venerdì, il Joyce Theater, il tango di strada. Glielo chiedo come sempre faccio, medio sangue, insalata a lato. E maionese, che il ketchup é già qui, già ferito. Mi porta da mangiare, nel tempo esatto delle mani da lavare. Fa un cenno al capo, greco, burbero, una croce d’oro che pare italiano, e si siede sulla poltrona di fronte, con le gambe verso la sala a fissare qualcosa che vede lui soltanto. Finge di fumare, o forse fuma davvero, indice e medio alla bocca, aspira fermo in petto l’aria e tre, e quattro e un soffio lunghissimo. Così finché non finisco. Spegne la sigaretta. Sospira le ciglia. E si volta verso di me. “Sono un attore” – mi dice – “L’avresti mai detto?”. Ed io: “cosa intendi, come avrei dovuto capirlo?” “Da come ti ho portato il piatto, dolcezza! Da come ti ho portato il piatto.”