Mi ricordo i due mesi filati passati li, come i mesi della riscoperta. Mi ricordo le mattine d'attesa, il silenzio del pomeriggio, la furia delle sirene e la grazia della luce, d'improvviso farsi presenti, a ricordarmi la vita. Ho memoria di tutto, che le foto servono a questo e che quello è stato il tempo in cui ho sentito la città farsi chiara dentro me. Come a chiarirmi chi ero, cosa avrei dovuto essere, quello che diventerò.

11.10.2014
Immobile sul tremore di treni di un quasi pomeriggio, un ombrello di carta, i piedi d’acqua dolce. Washington Square vibra per inerzia, mentre sotto l’arco feticcio, mi sorprendo a domandarmi di quale porzione di reale io mi nutra, di quanta verità, di quale bellezza. E ancora, di quale arte sia capace l’agire che è mio, del perché dell’amore attorno alle cose che dico, a quelle che vedo, a quelle incedibili che ne sono parte. Il fuoco sul dollaro scarso di una sigaretta e poi un respiro profondissimo e impossibile a bocca asciutta. Una donna minuscola e bianca, curva sulla sua fatica di esistere, le mani come fuori dall’acqua dopo ore, mi urla di spegnere subito, che è suo diritto farlo, che il cancro divorerà i miei polmoni. Stride ancora e di nuovo di una voce sottile, di un dire che sembra indotto dal Signore che è suo, dalla fame di vita che ha. Io, nel bel mezzo del secondo respiro, il migliore dopo il primo, spengo la sua paura e mi scuso. Grato, quanto le sono, per avermi svegliato dall’unico incubo che ho. Quello di non sapermi rispondere affatto.